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Il colore, sentimento di una città * |
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di Paolo Rizzi |
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Gheto Novo: esterno notte, 1988 |
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Una città-avventura? Una Maga Circe
equivoca e pericolosa? Un mito del Decadentismo? Un’ambigua Venere
anadiomene? Venezia può essere anche questo, come hanno immaginato
poeti ed artisti nel secolo scorso. C’è una sorta di concrezione
romantica che avvolge la città, quale ha ben espresso Georg
Simmel. Ma prima del Romanticismo, prima di Turner e prima anche di
Francesco Guardi, la storiografia ci mostra un’anima tutta diversa
di Venezia. Una città vivace, di traffici mercantili, di umori
contrastanti: una città di una bellezza che non se ne va incontro
la morte, come diceva Barrès, ma cammina eccitata verso la vita.
Ecco: è a questa Venezia più che all’altra, che
guarda Ernani Costantini, e che egli rappresenta nelle sue pitture.
Qualcosa che pulsa dal di sotto e che rompe tutte le croste letterarie:
qualcosa che assomma in sé la vitalità istintiva di un
organismo naturale. Difficile, difficilissimo, rappresentare Venezia
al di là dei Mito in cui pare indissolubilmente avvolta. Questo
Mito la irretisce; e più l’angolazione è culturale,
più esso traspare. Bisognerebbe tornare ai tempi del Presidente
de Brosses o anche a quelli di Voltaire, quando Venezia si presentava
in tutta la sua attività formicolante (scrive Voltaire: “Andrò a
Venezia: è un paese libero, dove non c’è niente
da temere”). Ma anche questa Venezia preromantica finirebbe per
trasformarsi in Mito o almeno in banale filmografia. È più ‘vero’ Gentile
Bellini o Canaletto? Forse si tratta di andare al di là: di
cogliere il ‘colore’ della città, in senso quasi
atemporale. Colore, come ha osservato Sergio Bettini, che coincide
con ‘sentimento’. Il colore di Venezia è il suo
particolare tono naturale. Scrive appunto Bettini: “Il gusto
nativo dei Venetici era per il colore: color vivo, scorrevole, aperto
all’esperienza, al tempo: tempo della natura e tempo dell’uomo.
Cioè sentimento, il quale intenziona anche quel che diciamo
natura, e in essa cerca e trova risposta”. |
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Le immagini che Ernani Costantini
ha tratto dalla sua città vanno
appunto viste e interpretate nel tramite dei colore. È questa
la differenza fondamentale tra la sua pittura e quella che genericamente
va col nome di Impressionismo. Entrambe, è chiaro, si richiamano
alla realtà, cioè all’‘occhio’ di Monet.
Ma l’Impressionismo vuole cogliere la fenomenicità della
natura: vuol riprodurre sulla tela la freschezza di un impatto fugace
con le cose. Ernani Costantini invece, come molti artisti dei periodo
storico successivo all’impressionismo, intende darci il “sentimento
dei colore”. È una fase anche categorialmente successiva,
nutrita di un velo di nostalgia, come se l’artista riaprisse
gli occhi dopo averli socchiusi assaporando e riassaporando il senso
dell’immagine goduta. Venezia, allora, diventa spleen, diventa
stato d’animo. Ma attenzione: Ernani Costantini, uomo di cultura,
rifiuta le concrezioni culturali. Vuol conservare la sua virginità sentimentale.
Malgrado le seduzioni sempre all’agguato (“Al mattino talvolta – ha
scritto Barrès – in Venezia io sentivo Ifigenia, ma il
vermiglio dei tramonto riadduceva Jezebel…”) egli non
perde il contatto con la ‘naturalità’ della città.
Via le “lenzuola d’oro posate sulle ossa” (de Musset);
ma via anche le nuove oleografie alla Cecil B. de Mille delle cartoline
turistiche. Occhi aperti; e sentimento che sgorga spontaneo. Il colore
non è soltanto il ‘tono locale’: è un colore
evocativo, una trasmutazione, un cangiamento che viene dall’anima
pura di un innamorato.
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San Marco: interno giorno, 1987/88 |
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Venezia: esterno giorno, 1988 |
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Ecco perché ogni quadro ha un suo
colore: cioè un suo stato d’animo. Venezia, come ha capito
Ernani Costantini, è una città di mille sfaccettature.
Annota ancora Sergio Bettini: “Venezia come nessun’altra
città possiede il carattere di disponibilità, di inesauribile
interpretabilità”. Il luogo comune di Venezia città-museo,
oggetto di una contemplazione univoca, è quanto mai errato:
la sua struttura di città al tempo stesso artificiale, cioè costruita
dall’uomo, e naturale, cioè sorta dall’alveo della
natura, la rende aperta, duttile, sempre accessibile ad una rilettura
semantica. Per Proust Venezia è “una delle forme dell’anima”;
e il grande scrittore francese la descrive sempre obliquamente, per
allusioni, per evocazioni, non potendo resistere alla sua visione diretta
(“un azzurro profondo inebriava i miei occhi; impressioni di
freschezza, di abbagliante luce mi giravano attorno e io desideravo
coglierle senza muovermi…”). Venezia diventa luogo dei
sentimento; e il sentimento muta: muta ogni volta, all’impatto
con le cose. Una città “versata nel tempo”, quindi
risolta in colore e ritmo: una città che Costantini rappresenta
nelle declinazioni dello spirito, nei toni, nelle diramazioni, nei
filamenti, anche se mai egli perde il contatto con la sua vita, pulsante
e tangibile. Insomma: i rumori e i silenzi di Venezia; le sfumature
e i barbagli; il disincanto e la tenerezza affettiva; l’ironia
e l’amore. La disponibilità di Venezia a questo ventaglio
di emozioni è massima. Lo vediamo in ognuno dei suoi quadri:
nelle intonazioni sempre diverse, che rispecchiano mutazioni atmosferiche
e, nel contempo, mutazioni sentimentali. Ora prevale un velo azzurro
che stempera la visione avvolgendola d’un timbro particolare
del sentimento; ora scattano colori vividi, anche vividissimi, a rendere
la motilità di un organismo, che è motilità anche
e soprattutto dello spirito. Vivacità e indolenza; trasparenze
sottili e barbagli di luce; momenti di sospensione e attimi frenetici;
una cadenza morbida e uno scatto felino… Venezia è anche
così: anzi, è soprattutto così. |
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È il notturno in Ghetto, screziato
di mille luci misteriose; è l’irrompere di strani angeli
dai mosaici folgoranti di San Marco; è il fluire lattiginoso
di un Bacino sentito come onda melodica; è anche (perché no?)
la burlesca caduta degli Zanni dall’affresco tiepolesco. L’obiettivo
talvolta diventa grandangolare, come a voler cogliere l’immensità di
un incontro tra acqua e cielo; talaltra si riduce, fino a cogliere
sottilmente il palpito d’un glicine nel cortiletto nascosto.
La dimensione-città diventa dimensione-anima. Tutto trasmuta,
tutto cangia.
Ecco perché questi quadri vanno giudicati con un metro diverso da quelli
solitamente in uso. Siamo fuori dalle avanguardie (e questo è fin troppo
chiaro); ma non siamo dentro né nel realismo, né nel verismo, né nel
naturalismo; e nemmeno, come s’è detto, nell’impressionismo.
Il giuoco dei sentimenti e degli stati d’animo prevale. Occorre mettersi
in sintonia con essi. Auscultare con l’orecchio interno, come diceva Mallarmé.
Percepire gli echi lievissimi, le risonanze misteriose di una città così disponibile,
così mutevole, così prensile. Attenzione alle apparenze: esse,
come diceva Simmel, diventano menzogna allorché non corrispondono né alla
realtà né alla sua antitesi. Ernani Costantini ha il cuore puro:
per lui etica ed estetica tendono a coincidere. Le sue immagini della città anadiomene
sorgono dalle onde intrise di schiuma e di alghe: rifiutano tutto ciò che è spurio.
Aschenbach è lontano. Venezia, laggiù, è ancora una volta
una delle forme dell’anima. |
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Facciata a Santa Maria Nova, 1987 |
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*^ Dal catalogo della mostra Vivere
a Venezia |
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