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Il dono di Ernani * |
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di Francesca Brandes |
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O Dio, quale grande bontà
abbiamo compiuto nel passato
e scordato
da donare a noi questa meraviglia…
Ezra Pound |
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I crisantemi
bianchi,
1974 |
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Crisantemi bianchi è un olio su
tela di piccole dimensioni, datato 1974: per il mondo di Ernani Costantini,
un paradigma commovente. La centralità del soggetto minimale,
trattato con affetto e considerazione, sospeso in un’atemporalità onirica;
la gamma luminescente, aerea, unita ad un insistito grafismo: è ciò che
l’artista intende per potere significante dell’immagine,
e sentimento dell’esistere. Come un’offerta che purifica,
senza alcuna malizia, secondo il principio di una necessità interiore.
Per grazia dolcissima, per dono.
Molta bellezza sta in questi lavori intimi, dedicati al quotidiano:
un rametto d’ulivo, un tralcio di mandaranci, un fiore nel bicchiere
o l’esplosione cromatica di un bouquet primaverile. È ciò che
il Maestro ha definito "aspirazione alla sostanza". Al di là dell’aspetto
formale pregevole, al di là del soggetto stesso, questo è lo
spazio nel mondo che spetta al pittore, e non un altro.
Ernani ha sostenuto, anche in tarda età, di dipingere per esprimere
quanto della propria persona, della propria sensibilità, della
propria fede potesse emergere allo stato di coscienza vigile. Uno stato
di solenne equilibrio, che in lui coincide con la grazia continua del
creare: è il flusso delle piccole cose – lo intuiamo – e
del dolore vitale che in esse si percepisce perché, come ci
ha spiegato l’artista, anche ogni intensa felicità ne è pregna.
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La pietas in Ernani Costantini
abbraccia l’esistente. Venezia, simbolicamente e fisicamente, è l’infinito
fuori della finestra, il fiore nel vaso, il ritratto. L’occhio,
soffermandosi sulle tracce – anche minime – di ciò che
vive, spazia lontano e vicinissimo, dentro di noi. Nei Girasoli trionfanti,
nelle serene vedute di montagna, nei ritratti di fanciulla anch’essa
arborea, virginale o nei tripudi d’ambiente, comprendiamo la
lezione impressionista e la solidificazione cézanniana dello
spazio, così come la “correzione” grafica dei nordici.
La luce fenomenica si agglutina senza perdere aria, mantenendo ombre
luminescenti.
La storia di questo dipingere, sempre autonomo e volitivo, si è costruita
su se stessa, fino ad abbracciare tutta la seconda metà del Novecento
ed oltre. Esistono, è ovvio, degli antecedenti (inevitabili per una mente
acuta e curiosa come quella di Ernani), e tuttavia il pittore – dopo averli
incontrati sul proprio percorso – li lascia essere per ciò che rappresentano,
fino ad assorbirli nel tessuto della propria ispirazione. |
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L'attesa, 1996 |
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Pensiamo all’influsso cubista e ai
gladioli del Compleanno di Lina del 1957, così leggeri
e delicati, già risolti in altre forme; oppure alla visionarietà liberty
del Caffè a Rapallo del 1954, che ricorda le prove
di Ugo Valeri, ma le trasfigura, con un gusto scenografico per i primi
piani che riecheggia tecniche cinematografiche. E che dire di certe
alte diagonali, proprie dei cicli sacri, che promanano dal Tintoretto
di San Rocco e dalle sue notti accese? È un sentimento vibrante
del reale, quello di Costantini, si tratti del tabià di montagna
o del notturno più maestoso. Comunque, l’artista non appesantisce
mai la sensazione sulla tela, non carica né il segno né il
timbro, in modo da mantenere quell’intima vibrazione il più a
lungo possibile. "Natura è la cosa immensa che non vi dà tregua – scriveva
Francesco Arcangeli – perché la sentite vivere tremando
fuori ed entro di voi: strato profondo di passione e di sensi, felicità,
tormento. In un tale rapporto s’include tutto ciò che
si sta svelando". In “tutto ciò che si sta svelando”,
Ernani annovera la sacralità del Creato, quel momento di attesa
incantata che coglie il pittore quando deve porre mano alla tela. Sarà la
corona delle Dolomiti, dall’incarnato roseo come i volti delle
sue donne belliniane, o il rifugio specchiato di un campiello veneziano,
sarà la luce della luna che filtra attraverso la magnolia o
la festa di un balcone sul canale: luoghi dell’anima che diventano
lo spazio della vita.
La pittura è vita, sembra dirci Ernani. Il quadro è un
punto di arrivo, l’equilibrio a cui si aspira, e possiede una
sua fondamentale dignità perché – come sostiene
l’artista – "la pittura serve a richiamare i sentimenti".
Tornano alla mente, per la loro preveggente pertinenza, i due poli
entro cui Guido Perocco – critico, amico e sodale di Costantini – poneva
il viaggio artistico ed umano del pittore: ordine e ardore, dove il
senso religioso della vita si coniugava con un sentimento sempre affettuoso
per l’esistente. "[…] credo pertanto al rapporto
d’amore
fra gli uomini, inteso in senso cristologico – scrive Ernani,
in antitesi alle istanze pseudo-concettuali che via via vanno emergendo
sulla scena artistica – odio tutte le forme di espressione – puntualizza – che,
facendo leva su presunti significati e motivazioni, gabellano per opere
ed operazioni artistiche i bamboleggiamenti e le sciocche esibizioni". |
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Il compleanno di Lina, 1957 |
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Il salotto di Lina, 1999 |
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A partire da simili dichiarazioni, decisamente
controcorrente, si può intuire come l’ordine a cui si
riferisce Perocco costituisca un unicum, o comunque una bizzarria
nell’ambiente
lagunare del secondo dopoguerra. Le fattezze di una vita serena, regolata,
"accordata all’arte", come di chi proceda senza esitazioni
lungo il cammino che si è prefisso, senza farsi toccare dalle
mode, possono apparire – di primo acchito – lontanissime
dalla vis poetica che si attribuiva superficialmente agli
artisti. Nulla di più errato o fuorviante: nel passo di questo
veneziano discreto e colto, con cui si dice fosse molto difficile litigare,
leggiamo una celebrazione del mondo nella sua verità, quella
che il compianto Bruno Rosada ha definito "il profondo senso della
creaturalità delle
cose". Un’integrità smagliante definisce l’uomo
e l’artista Costantini, si tratti di una veduta minima, un ritratto
dedicato all’amata moglie Lina o di un affresco religioso, in
una delle tante chiese del territorio (soprattutto veneziano, ma non
solo) per cui Ernani creò nei decenni autentici capolavori. È in
lui, sempre, prodigiosa la congruenza tra intenzione e realizzazione,
come può avvenire solo nei grandi: si pensi ad Antonello e alla
sua Annunciata, al Mantegna, all’istinto vitale di Giotto. Il
massimo dell’analisi in una sintesi meditata, che appare lieve
nonostante il rigore, nonostante l’ordine, come la figura di
un ballerino nell’aria, come principio di necessità interiore.
"Soltanto scavando dentro e attraverso la forma – sono parole fondamentali
di Roberto Longhi per tutti coloro che, a diverso titolo, vengano a contatto
con l’opera d’arte – e stratificando le ‘ricordanze’ tonali,
si può riuscire alla luce del sentimento più integro e puro […]
e non si esprime, si sa bene, che il sentimento". Come possa avvenire il miracolo
in Ernani è sempre Perocco a suggerircelo, quando affianca all’ordine,
al rigore dell’artista la categoria fantasmagorica dell’ardore. Senza
contraddizione. |
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Dichiaratamente, orgogliosamente cattolico,
intriso della tradizione della sua terra (molti si ricorderanno la
sua grande tela La polenta, con la madre a tracciare la croce
in segno di benedizione sul grande sole giallo al centro della tavola),
Ernani vive la propria religiosità in modo assoluto e sincero. È la
fede a pervadere di un ardore splendente ogni cellula del suo giorno.
"Tutto il vissuto è sacro – ha scritto con rara intuizione
Bruno Rosada – tutto il sacro è vissuto". Procedere così,
con ordine e ardore, ha significato certo per l’artista un andare
controvento. Aderente (fino a divenirne Presidente) dell’U.c.a.i.,
poco incline a seguire le sirene degli “ismi” contemporanei,
con testardaggine, ma sempre con un sorriso di offerta al mondo, Ernani
Costantini ha costruito un percorso autonomo, fino a generare una cifra
chiaramente distinguibile. La tela I pani e i
pesci del 1959 parla
già con chiarezza, indicando un procedere limpido ed assoluto.
Bisogna ribadire, e con forza, la libertà artistica ed etica
di Ernani: libertà nei soggetti, in un clima che prediligeva
ricerche impegnate sul versante concettuale; libertà delle forme
espressive che accolgono l’aperto tiepolesco e lo ristrutturano,
o guardano al Tintoretto, persino al Caravaggio per volontà costruttiva.
Diceva spesso: "a me piacerebbe donare gioia", e lo ha sempre fatto
con consapevolezza, ma senza intenzione dichiarata di poetica. Una
gioia elementare, strutturale, proposta senza mediazioni: una pianta è una
pianta, la luna è la luna, nulla che si debba chiamare in un
altro modo, se l’occhio può raccontarlo bene. Le opere
di Costantini godono di una moralità intima e tutta legata alla
loro percezione fenomenica, anche alle loro contraddizioni. Tuttavia,
non vi è gioia – sembra dirci Ernani – se non nella
soluzione, nel superamento delle contraddizioni stesse: tutto diventa
quotidiano senza risultare banale; la forma non cancella la luce mattutina
che anima la visione e che l’artista ostinatamente persegue:
"donando / ai miei quadri un chiarore / aurorale / di prima comunione
/ di primo amore…" scriverà in una bella lirica
tratta dalla raccolta L’abbaino (1995). È anche poeta
Ernani, e romanziere, con la medesima luce nella mente e nel cuore
(molto sarebbe ancora da analizzare nella sua opera letteraria, che
qui ci limitiamo a cogliere come suggestione, quel tanto che basta
per comprendere la profondità della forza espressiva di questo
artista, e l’ampiezza
dei suoi interessi). |
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I pani e i pesci, 1959 |
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Esistere – consistere: condizione
che accomuna Ernani ad un altro grande “battitore libero” del
suo tempo, Arturo Martini. L’intima corrispondenza fra i suoi
ritratti illuminati dalla grazia e la Leda martiniana basterebbe
da sola a spiegare l’intenzione classica di Costantini, lo studio
attento della tecnica luministica, così come il nitore delle
biancherie stese, il rosa degli incarnati e dei petali. Materia che
esiste-consiste con la dignità della tradizione, del tempo trascorso,
delle esperienze compiute. Ogni volto, la Giornalaia, le
Cugine, le
fanciulle dei suoi nudini pudichi e splendidi, paiono distillati, emendati
da ogni accidente terreno, come ovali del Laurana. Difficile, dunque,
assimilare Costantini ai petits maîtres post-impressionisti
del secondo dopoguerra lagunare. Altri sono i richiami, altre le strade
seguite da Ernani, in quella pittura timbrica, molto più difficile
da analizzare di quanto non sembri felice, serena, accordata nella
risultanza dell’equilibrio pittorico. A ricercarne le tracce,
non potremmo assolutamente prescindere dalla grande fucina della Scuola
d’Arte dei Carmini che Costantini frequenta, diplomandosi nel
1942. Vivaio d’eccellenza, dove insegnano maestri come Ercole
Sibellato per la pittura, Mario Disertori per il disegno di figura,
Giorgio Wenter Marini per la composizione architettonica e il grande
Giulio Lorenzetti per la storia dell’arte. Saranno loro ad influenzare,
da subito, per qualità ed onestà intellettuale, il percorso
dell’artista. Ernani vive da veneziano, ma con un’aspirazione – da
principio – tutta rivolta ai toscani. È la solida via
dei giotteschi ad impressionarlo, ma – come spesso avviene a
Venezia – anche l’aria dei fiamminghi penetra nelle sue
riflessioni, come un vento di verità. Del resto, il collegamento
fra le vicende lagunari e la cultura nordica anima di sé tutto
l’Ottocento veneto e friulano (non si scordi il filo rosso, discreto
ma tenace, che lega Ernani alla scelta intima di Favretto o al vedutismo
di Caffi, per approdare al Casorati delle Signorine, alla
pittura-pittura delle Tabacchine di Cadorin, con il soggetto
quotidiano al culmine della semplicità). |
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Le cugine, 1975 |
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San Marco: interno
giorno,
1987-88 |
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Piace ad Ernani, via via che si definisce
un’impronta personale (ormai padre di famiglia e insegnante),
il dipingere come scelta di vita, una pittura figurativa robusta, fondata
sul primato del disegno. Tuttavia, la prospettiva lineare, trattata
con la più grande esattezza (come si conviene a chi ha letto
correttamente, e compreso l’esperienza di Antonello, la costruzione
di Piero della Francesca), vi è raddolcita dall’atmosfera
di laguna. Nella costruzione dei piani verso l’orizzonte, Costantini
smorza i toni e sfuma le forme, cosicché è la prospettiva
stessa a farsi aerea; come ha osservato Perocco: "ove tutto diviene
aereo e vaporoso e gli angeli volano assieme agli uomini, alle virtù femminili,
morbide e ben nutrite, alla gloria, al tempo e alla fama…" Ce
lo ricorderemo, nell’osservare San Marco:
interno giorno, una
tela del 1987-88, abitata da presenze angeliche in un contesto meraviglioso
e familiare come la Basilica. Questa, peraltro, è anche la prospettica
magica di Ernani: un’ottica straniante, ma per piccoli tocchi,
per quel tanto di deviazione di senso che la realtà concede.
La Venezia del pittore non ha nulla a che fare con gli stereotipi,
con la vana citazione di spazi. Non è neppure una vetrina di
lusso. Vi si legge, invece, la volontà insopprimibile di affermare – con
garbo e decisione – che la pittura è un assoluto dell’esistenza,
dove è ancora possibile il miracolo. |
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La figurazione, in Costantini, annuncia
la vita senza sottrarne il mistero, l’evidenza profonda. L’operare
dell’artista, anche per queste ragioni, è contraddistinto
da una coerenza estrema, sia nei soggetti profani che nei grandi teleri
di arte sacra che – dagli anni Cinquanta in poi – Ernani
ha prodotto su commissione per numerose chiese del Veneto: da Padova
ad Auronzo, da Sacca Fisola a Mestre, a Rovigo. Da pittore a frescante:
rimangono le storie, narrate con la medesima cultura figurativa, la
stessa semplicità complessa; resta una cifra assolutamente personale
nel dimensionamento dei personaggi che talvolta sembrano volare o s’accendono
di uno straordinario lume drammatico. Anche se l’analisi dell’arte
sacra di Ernani Costantini meriterebbe, senza alcun dubbio, una trattazione
specifica, non si può fare a meno di ricordare in questa sede
almeno la mostra Veneto cristiano, presentata a Venezia nell’autunno
del 1991, in cui l’artista racconta il rapporto con le proprie
radici, a partire dai luoghi cardine della religiosità: il Santo
di Padova e Santa Giustina da Prato della Valle, il Santuario
di Monte Berico, il Ponte Votivo del Redentore e la distesa
dei campanili veronesi visti dall’ansa del Teatro Romano. E ancora Da
Eva a Maria, il grande ciclo pittorico dedicato alle donne della
Bibbia, che Costantini realizza nel 1985 con l’apporto poetico
di Antonio Bruni.
Sempre l’occhio chiaro di Ernani, benevolo ed intelligente, posato con
leggerezza sul mondo: "Mi domando – scrive – se può esservi
dicotomia tra la pittura a tema religioso e quella a tema profano. Decido di
no e cerco di operare una sintesi […] Mi riaffermo – conclude – nel
concetto che ‘tutto è sacro’ quando ci sia sacralità in
noi di fronte alle cose della vita".
Non resta oggi, ad alcuni anni dalla morte del Maestro, solo il rimpianto di
quella vista limpida. Di Ernani ci resta il dono: la luce, il colore. Resta l’esempio
di come ci si debba occupare d’arte, di letteratura, di musica, in un mondo
che sempre più trascura l’essenziale: con dignità e valore.
Con la volontà di offrire, con l’esercizio silenzioso e continuo
della ricerca, con onestà intellettuale. Come dire, con ordine e ardore. |
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Venezia Ponte votivo del Redentore,
1990-91 |
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Francesca Brandes
giugno 2014 |
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*^ dal catalogo della mostra Il dono
di Ernani, 2014 |
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