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Un messaggio di serenità e di armonia |
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di Paolo Rizzi |
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“Se nel quadro il avanza spacio, io l’adorno
di figure secondo le inventioni”, diceva Paolo Veronese ai giudici
del Sant’Offizio. E aggiungeva: “Nui pittori si pigliamo
licentia che si pigliano i poeti e i matti”. |
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Un bicchiere, due fiori di campo infilati
nel vasetto, un pezzo di pane appena uscito dal forno, una fanciulla,
lo scorcio del suo tinello, questo dipinge Ernani Costantini. Ma non
travisa, come fanno molti, non sovrappone uno ‘stile’;
immerge soltanto l’oggetto in una luce che sa lui, diffusa e
gioiosa, che si sfrangia nelle screziature del colore, s’addolcisce
e magari scatta con un tono acuto, brillante. Pur essendo uomo intellettualmente
impegnato, e pur cimentandosi periodicamente in grandi cicli di decorazione
murale, egli dipinge da ‘puro’, come chi ricerca un’evasione,
venata di nostalgia. I suoi quadri sono come certi particolari del
Veronese: brani a sé, di una realtà amorosamente accarezzata,
al di fuori di ogni ragione
Ai giudici del Sant’Offizio, o magari a Diderot non sarebbe
piaciuto, perché chi cerca in Costantini i ‘significati’,
trova ben poco; e men che meno chi cerca l’ideologia o il cosiddetto ‘impegno’.
Difficile trovare un pittore più ‘disimpegnato’ di
lui. Se la sua pittura c’insegna qualcosa (ma perché poi
deve insegnare?) è l’amore per le piccole cose, l’amore
per una certa luce chiara, l’amore per un taglio compositivo,
per il particolare che solitamente sfugge, per quel nonsoché di
un’aria incantata…
Eppure – chissà da che cosa dipende – quando
esco dal suo studio o dalla galleria in cui sono esposti i suoi quadri,
mi sento più leggero e anche, lo confesso, più contento.
Costantini distende i nervi. Rilassa. Può essere anche questo
un merito della bella pittura. Ma alfine mi accorgo che la ‘lezione’ si
insinua dentro di me: ed è una ‘lezione’ morale.
La serenità, l’armonía, l’ordine delle
cose, l’equilibrio interno che si riflette all’esterno,
il sentimento eterno del classico… Vuoi vedere che Costantini è un
pittore davvero ‘impegnato’, e più di tanti altri? |
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Paolo Rizzi
Gennaio 1972 |
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Apparentemente, la pittura di Ernani Costantini è fuori
del suo tempo. È una pittura che si potrebbe definire, grosso
modo, ímpressionistica: cioè legata alla labilità del
fenomeno, nel senso di una percezione puramente sensitiva. Ma è anzitutto
da chiedersi quale sia il modus estetico del nostro tempo: se esso
sia proprio quello che riflette una civiltà di tipo tecnologico,
con tutte le sue implicazioni non soltanto di ordine tecnico (laminati
plastici, acciai profilatí, neon, vernici industriali, poliesteri)
ma anche di ordine psicologico e sociologico (alienazione, massificazione,
consumismo e così via). O se piuttosto non sia in atto oggi
un rifiuto, anzitutto etico, di ogni unilateralità, di ogni
acquiescenza alla cosiddetta cultura dominante.
In effetti, sarebbe ben strano che un uomo di cultura, aperto alle problematíche
d’oggi e impegnato sul terreno sociale e religioso, come è Ernani
Costantini, non avesse capito la dura lex di essere ‘dentro alla realtà’. È chiaro
invece che Costantini ha operato una scelta che non è soltanto estetica,
ma affonda le sue radlci nella nuova coscienza dell’uomo che va
vieppiù formandosi oggi, in contrapposizione all’indirizzo prevalente
di ordine pragmatistico e tecnologico.
Una qualsiasi analisi della pittura di
Costantini non può nascere
che da qui. Anche rifacendosi alle ragioni ‘storiche’ del
suo discorso, vale a dire alla partenza negli anni del dopoguerra,
quando si formò il gruppo nuovo dei giovani dell’Opera
Bevilacqua La Masa a Venezia, va sottolineata la comunanza di posizioni
antimanieristiche, che fa dell’ultima generazione capesarina
un’oasi a sè rispetto agli indirizzi prevalenti in quegli
anni. Forse soltanto la lezione neocubista di una strutturazione
dello spazio sui vettoríforza della forma interna venne assorbita
da Costantini, come da altri suoi coetanei: e fu ancora una volta
(come era successo quasi mezzo secolo prima per Gino Rossi) una presa
di coscienza della verità delle cose, oltre e al di fuori
delle convenzioni pittoriche, o pittoresche: non certo quindi come
una sovrastruttura estetica calata dall’alto. Cézanne
e il cubismo servirono a Costantini per ‘solidificare’ (era
il termine del “patriarca di Aix”) l’oggetto della
visione: per conciliare, in altre parole, i due poli della sensitività e
dell’intelletto. Ecco il grande asserto braquiano della “regola
che corregge l’emozione”. Ma è una regola che
non può essere puramente formalistica: essa investe tutto
l’operare dell’uomo ed è quindi, sostanzialmente,
regola morale.
Capisco come chi non conosca Costantini possa avere delle perplessità di
fronte a questa asserita moralità interna di un’opera
d’arte così legata, come s’è detto, alla
percezione fenomenica. Ma occorre ben tenere presente come ogni dualismo
si risolva, nell’etica originaria del cristianesimo come nelle
sue interpretazione d’oggi, da Bernanos a Daniélou,
in una tensione unitaria nella quale la salvezza è frutto
di un superamento degli opposti (la grazia). Così, nella pittura
di Costantini la razionalità non porta a scartare il sentimento,
la forma non cancella la luce, la costruzione non soffoca il colore:
questi poli non sono che la risultanza di forze diverse, che tocca
alla pienezza dell’uomo convogliare verso un’unica direzione.
A ben vedere, l’incontro non è che la risultante di
una fusione di tipo etico, oltre che estetico: e il ‘messaggio’ che
ne deriva è quello dell’equilibrio, della serenità,
dell’aurea misura. La pittura di Costantini si inserisce quindi,
con la spontaneità e la semplicità del vero ‘impegno’,
in una corrente di pensiero che si fa oggi ‘controcultura’:
nessun ritorno coatto alla natura, nessuna nostalgia dei vecchi schemi,
bensì la precisa proposta di una nuova dimensione ‘bilanciata’ dell’uomo.
La chiave per capire Costantini, in sintesi, è tutta qui.
Ma essa apre realmente le porte a qualcosa che è nuovo e antico
insieme. Il piccolo modesto oggetto posato sul tavolo, sfrangiato
dalla luce morbida che lo avvolge amorosamente, può indicare,
emblematicamente, la strada per uscire dagli angosciosi turbamenti
dell’oppressione tecnologica. L’oggetto svela la presenza
attiva dell’uomo, la mano sicura e calma che lo ha posato e,
magari, forgiato, il valore d’un gesto che ha la misura dell’eterno.
Tutto diventa familiare, quotidiano: ma non banale. Dietro la forma
accennata da un pennello trepido e delicato, si cela la sostanza
di una ragione di vita. Appunto la misura: quell’aderenza alla
natura dell’uomo che presiede ad ogni atto dell’artista,
come un’offerta d’amore. |
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Paolo Rizzi
Gennaio 1973 |
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