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Trent'anni di ricerca pittorica costituiscono
l'occasione di un bilancio che a volte può essere perfino
definitivo per un artista.
Sicché questa mostra allestita
al Centro d'Arte San Vidal ‑ che di anni di lavoro ne documenta in
effetti trentadue ‑ potrebbe sembrare un consuntivo irrimediabilmente
conclusivo nella vita di un pittore.
Senonché Ernani Costantini
proprio in questa mostra rompe questa chiusa prospettiva come del
resto ha sempre fatto nel corso della sua ormai lunga avventura artistica
– presentando a conclusione della stessa un gruppo di lavori dedicato
al Cantico
dei Cantici (dai quali sono tratte anche le tre splendide litografie
raccolte in cartella da una presentazione di Nantas Salvalaggio)
che indicano il nuovo varco entro il quale Costantini riesce a sfuggire
nuovamente alle conclusioni definitive.
In questo senso Costantini
appare uno dei pittori più anomali
tra quelli dell'area veneziana perché, nel corso degli anni,
ha sempre avuto l'inquietudine e la energia di forzare le esperienze
molteplici affrontate per superare i limiti e tracciare nuovi sentieri
da percorrere.
Si tratta di un gioco di assorbimento e superamento
che Costantini inizia giovanissimo già con i suoi maestri
prediletti – Sibellato
e Disertori – e che continua sia dinanzi alla “mediterranea classicità
del novecentismo” che al “brillante e un po' superficiale colorismo”
dei “petits maîtres” veneziani.
La verità è che
Costantini affonda le sue radici in terreni
più profondi e “adora” il rinascimento toscano, o viene
fulminato, nel 1941, dal fascino dei colori dolci di Giambattista
Tiepolo.
Occorre tener presente questa considerazione per poter capire
come se da un lato la sua curiosità intellettuale lo ha portato
spesso ad avvicinarsi ad esperienze storiche già consolidate,
essa allontana Costantini da altre, pure importanti, in atto come
il neocubismo del dopoguerra a Venezia.
Fino alla metà degli
anni Cinquanta Costantini procede infatti per salti appassionati
e liberi ad un tempo, quasi con la paura di farsi imbrigliare definitivamente
in uno schema. Dipinge è vero La Giornalaia
(1953‑54) in)
cui l'influenza cubo‑futurista di quegli anni è evidente ma
già l'anno
successivo, con Annunciazione tenta una personale mediazione tra
le “leggerezze aeree” della pittura veneziana e i drammatici “tagli
cubisti” della pittura allora di moda.
“Tutto ciò – scrive
Rizzi nella bella ed esauriente presentazione – può dare l'impressione
di un artista che non ha ancora fatto una sua scelta precisa”. La
verità è, come spiega immediatamente
dopo lo stesso Costantini, “che nella cultura, come nella vita, non
c'è nulla di acquisito, ma tutto è in continuo divenire”.
Si tratta di una posizione morale, prima ancora che artistica, che
Costantini coltiva alla ricerca non solo di una propria personale
connotazione artistica ma anche e soprattutto, forse, alla ricerca
di una sua identità di uomo.
E semmai ci fosse da individuare
un filo conduttore costante nel lavoro e nella vita di Costantini,
questo appare essere il senso della cristianità (piuttosto
che della religiosità)
che pervade tutta l'opera e la personalità dell'artista.
Ed è da
questa fonte profondamente avvertita che scaturiranno le sue sacrali
nature morte, gli abbandoni dolcissimi delle sue maternità,
quella sua visione pacata e riflessiva delle cose e degli uomini.
Ed è naturalmente da questo forte ed insopprimibile sentimento
che nasceranno i grandi affreschi di ispirazione sacra, realizzati
appositamente per chiese aperte al culto.
Una ispirazione cristiana
che lo conduce ad idealizzare ed ammantare di pudore e naturalità perfino
i suoi nudi più recenti,
in un tentativo, oltre che di creatività pittorica, di trasmissione
agli altri di un unico universale messaggio d'amore.
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